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venerdì 28 ottobre 2016

Foglie e voglie

Appoggio le dita sulla nodosa corteccia di carne di una pianta rampicante, le foglie avvizzite, o appena cadute sul letto del parco, scricchiolano sotto le suole. 
La brezza leggera mi raffredda i capelli, un alito freddo di vento mi solletica lo sguardo intirizzito, 
è l'Autunno. 

Mi piace perdermi nei parchi del centro, dimenticare il traffico irrequieto e la frenesia della città. Mi piace indugiare placidamente e ondeggiare senza una meta, fermarmi ad ascoltare lo sciabordare di una fontana. C'è un quadro impressionista di fronte a me, colori caldi che giocano a rincorrersi come gli scoiattoli. Vedo giallo, rosso vermiglio e marrone sovrapporsi, intrecciarsi. Foglie che cadono su un letto di terra umida e si mischiano creando mille sfumature, mille pigmenti di vita vissuta. I ricordi prendono il sopravvento, mi cullano e anelano alla superficie della mia memoria sfocata. Le passeggiate infinite tra boschi incantati, pennellate intrise di nostalgia. L'autunno è una stagione strana. Un ponte malinconico che scricchiola come  fogliame avvizzito, ma profuma di buono. Profuma di ricordi, di vita vissuta, di mani strette e strade intraprese. Di ostacoli e fallimenti. Connessione di volti, sguardi, frasi non dette e persone amate. Le fasi della vita passata cadono e si accatastano sul terreno della memoria, come le foglie autunnali. C'è un senso di rinascita, non di morte. Holland Park è dipinto da mani straniere, ma mi sento a casa. È un cancello aperto sulle corde tenere e selvagge della mia esistenza. La panchina su cui siedo è umida ed accogliente, come le pagine dei libri che ho letto, le trame si intrecciano avanti ai miei occhi, vedo Jane Eyre passeggiare inquieta in attesa del suo amore perduto, Peter Rabbit fare capolino dalle aiuole. E poi giri l'angolo e vedi un pavone, torni alla realtà. Il suo blu cobalto mi guida verso il Kyoto garden. Il mio locus amoenus, il mio non-luogo, la mia cascata sciabordante di pesci esotici. La mia vita. Mi chiedo se non sia questo il segreto. L'equazione per risolvere il mistero della nostra esistenza. Il ricordo appannato di un parco autunnale, che rende tutto più chiaro e più lecito. Un percorso tattile e intellettuale per le vie del mondo, stando ferma. Osservando, ascoltando, lasciando fluire i pensieri come memoria liquida. Semplicemente esistendo, qui ed ora, e poi uscire da questi cancelli dorati, e tornare a vivere, arrancando, in attesa di un nuovo inizio, o di una nuova stagione. 

mercoledì 23 marzo 2016

22.03.2016



 

After having watched HUMAN, I've felt relieved.
Just few hours before almost 34 people got killed and far more injured in Bruxelles. We are supposed to get used to these tragedies. We are none but silent witnesses of every kind of harrowing slaughter, our eyes are full of smoke's bombs, our ears are plenty of shots' sounds. We cannot act. During these instants, something inside us breaks forever. As the time went by, we strive to forget, we strive to move on. But we cannot deny that a piece of our lives, our will of happiness, our trust in a better world, has just dead.
However, there is always a chance of redemption. I have gone to the cinema without any expectation. 

After three hours of Humans, I've changed my mind. I've been overwhelmed by stories of people, real people throughout the world. Everyone of them had something special and painful to share. Each of them opened their heart to the director, speaking through the camera, facing their past evils, their fears, their struggles to survive in a planet full of injustices and disparities. Bertrand interviewed refugees, abused women, persecuted minorities. Even though grief was depicted on their faces, they haven't given up.
And then I felt lucky to be alive, to be sorrounded by love. Which means everything. Our power is not revenge, is not hatred, violence or fear. It is just love. It is being eager. It is never stop to cross our path. Don't be discouraged to take a flight, to travel abroad, to meet new people, to share ideas, experiences. We should not be just witnesses of life. We should go out in the world and live it. From the very first moment until the end. 
Our planet is terrific, it's huge and amazing. I am extremely proud to be part of it. I won't never stop to be curios about it. If we believe we can change it, then it's possible.



mercoledì 16 marzo 2016

After having watched the haunting film Fuocoammare I can't but feel a bit more conscious of Italy's essential part in the refugees crisis. I'm highly proud of my country's ongoing commitment in having rescued thousands of refugees from certain death in water. 
Over decades Lampedusa Island has been bearing witness to the harrowing stories of people who are tirelessly and hopelessly trying to reach Europe for a better life. 
Gianfranco Rosi's film Fuocoammare is a necessary, educational and dreadful photograph of the greatest humanitarian tragedy of our times. 

(Dopo aver visto l'ammaliante pellicola Fuocoammare non posso non sentirmi più cosciente dell'essenziale ruolo giocato dall'Italia nella crisi dei migranti. Sono altamente orgogliosa del continuo impegno della mia nazione nell'aver salvato migliaia di migranti da morte certa in acqua. 
Da decenni l'isola di Lampedusa sta testimoniando le strazianti storie di persone che tentano senza sosta e disperatamente di raggiungere l'Europa per una vita migliore. 
Fuocoammare di Gianfranco Rosi è un necessario, educativo ed agghiacciante ritratto della più grande tragedia umanitaria dei nostri tempi.)


giovedì 23 luglio 2015

Addii


Certe persone sono fatte per passare.
Imprimono un'orma sulla tua corazza titubante. Chi più profonda, chi più superficiale. Sono pochi a restare fisicamente, ma è necessario che restino le storie che avete condiviso, i ricordi comuni che sono ormai impressi sul tracciato del vostro cammino. Il tempo di un soffio, presto dissolto come bolla di sapone.

Ma niente esiste mai troppo a lungo.

Si perpetua solo l'irrequietezza di un animo instabile, sempre più affamato di vite altrui, di varietà umana, con le sue forme e colori variopinti, diversità di opinioni, punti di vista, aspetto e mentalità.
Il bello è che per brevi, fulminei istanti, tutto coincide perfettamente: un'esperienza, un pensiero, un cammino, un amore... per poi disfarsi e ricomporsi in nuove infinite aggregazioni di intenti e volontà.
Siamo fatti per passare. Come passano gli anni, così anche le persone, l'amarezza lascia il posto alla consapevolezza che se osi, provi, cerchi, sei curioso, sarai sempre circondato da nuove scommesse e possibilità.
La meraviglia di una vita che si mischia ad un'altra, lo scambio di opinioni, il confronto, la caccia, il rifiuto, l'addio.


Nuvole di dubbi e di bellezza.

domenica 28 giugno 2015

Intervista a Roberto Minervini, regista che ha fatto della paura il suo coraggio.


“Vedo il cinema come militanza. Per me è una missione dar voce a questa gente invisibile, all’America sommersa”.


Roberto Minervini, regista marchigiano tornato in patria dall’America, e reduce da Cannes, ha ricevuto una calorosa accoglienza, mostrando la sua ultima fatica cinematografica: “Louisiana (The Other Side)”all’anteprima del “Capodarco l’altro festival” (22-27 giugno 2015), il regista ci ha trascinato in una realtà antitetica alla nostra, fatta di esseri umani stanchi di essere ignorati e di un’America ben poco eroica.
Il film documentario racconta una storia di sopravvivenza in una comunità distrutta dalle metanfetamine. Lo sguardo di Minervini si astiene dal giudicare, egli osserva la realtà prendendo le giuste distanze, ma anche con una forte intensità ed affetto verso i personaggi sofferenti.
Tra spettatori e protagonisti si instaura così un rapporto intimo e privilegiato che permette di mostrare, forse per la prima volta sullo schermo, la tenerezza, il rispetto, la voglia di riscatto e la paura autentica di queste persone. C’è un amore profondo e straziante, complice e distante, che accompagna dolcemente immagini spiazzanti e brutali, però vere.
Ho discusso con Roberto di cinema, di politica, di futuro, e di come far sentire la propria voce in un mondo che finge di non sentire. Il messaggio è ottimistico e forte, e conoscerlo è stato un piacere, ecco quello che ci siamo detti:


Considerate le sue origini marchigiane, vorrei chiederle quanto c’è delle Marche in lei, e cosa le è rimasto di questa regione così bella ma anche purtroppo dimenticata.
“In me delle Marche c’è tanto. Una cosa è questa grossa frammentazione territoriale, culturale e di linguaggio. A 5 km di distanza si trovano altre realtà socio-economiche ma anche linguistiche, il dialetto cambia a pochissima distanza, quindi ci si sente frammentati e diversi, però allo stesso tempo si convive, ci si frequenta. In questo è rimasta la mia affinità nei confronti del diverso, ho un’assoluta tolleranza verso tutto ciò che varia da me. I miei standard sono flessibili, ci convivo.”



In Louisiana (The Other Side) lei parla di una comunità emarginata, nascosta agli occhi del resto del mondo, che vive in un’America piena di contraddizioni. Pensa che questo suo interesse per il diverso e il periferico sia scaturito dal suo esser nato a sua volta nella provincia marchigiana?
“Si, assolutamente. Io sono delle Marche calzaturiere, Monte Urano, quindi delle Marche dure dove i cicli economici altalenanti si sentivano, dove ho visto e assistito alla ricchezza, a giovani che a quattordici anni avevano già soldi in tasca, molti giocavano d’azzardo e si drogavano, oppure si creavano un futuro, erano altri tempi. Ho visto gente perdere il lavoro, affrontando i cicli di bassa dell’economia, e non trovarlo più.
Delle Marche mi è rimasta anche quell’umiltà, quello stoicismo. Il marchigiano si dice, è stoico, e al tempo stesso umile e riservato. E questo lo ritrovo adesso in certi ambienti. Inoltre il marchigiano lavora sodo, ma non si gode molto la vita. L’interesse per il diverso l’ho sviluppato così: nelle Marche si stava in territori e comunità molto piccole, e si conviveva tutti, a prescindere dai ceti economici.”

Louisiana è il suo film più politico. Si parla soprattutto della rabbia dei protagonisti nei confronti delle istituzioni che li hanno dimenticati. Lei pensa ci siano similitudini con la situazione politica italiana? Cosa si può realmente fare, sia da noi sia in America, per dar voce a queste minoranze dimenticate e provinciali?
“In America esiste di recente un fenomeno che in Italia conosciamo da tanto tempo: la politica ostruzionistica delle opposizioni, va sempre a scapito del cittadino. Ci trovo una crescente assenza delle istituzioni, quindi politica, sul territorio. Questo accomuna l’America all’Italia e, ahimè, anche la politica di complotto e corruzione che ritrovo purtroppo adesso anche in America. In America forse il problema più importante è l’accentramento dei media intorno ai governi, e quindi la conseguente manipolazione o occultamento delle informazioni.
Penso che il cambiamento debba partire dal basso, dal territorio, dalla gente, non top-down dalle istituzioni. In entrambi i paesi non esiste mobilità sociale, soprattutto in Italia con la tassazione alta la gente non sopravvive, sono due realtà molto difficili da questo punto di vista.”

In questo film lei mostra quella che è stata definita “L’altra faccia dell’America, di una società che si sente straniera nel proprio paese. “I suoi documentari” – citando il critico Goffredo Fofi – “propongono esempi di vera vita americana nel bene e nel male, quella che Hollywood non narra più da tempo.” Come mai questa scelta così estrema e coraggiosa, e se vogliamo anche controcorrente? Non molti registi amano prendersi questo rischio.
“Un po’ perché vedo il cinema quasi come militanza. Io avevo e continuo ad avere l’opportunità di dar voce all’America sommersa, perché io vivo in quei territori, a stretto contatto con questa gente invisibile. E per me è una missione andare a raccontare ciò che i media e Hollywood  in primis hanno occultato. A me piace essere in prima linea, a volte la vita me la complico. Mi piace molto lavorare con temi difficili.”


Immagine tratta dal film Louisiana (the other side)

In America il film uscirà?
“Sì, ci sono già delle offerte di distribuzione. A conferma del fatto che c’è gente che vuole far emergere la faccia della vera America. Sapevo di non essere da solo lì, sapevo che il mio lavoro sarebbe stato voluto anche dagli americani, non dall’America istituzionale ma sicuramente dai cittadini. C’è anche da dire che io non avrei potuto fare il film senza l’appoggio delle istituzioni italiane e anche di quelle francesi. Io giro in America ma continuo ad essere un autore italiano. La mia non è una co-produzione americana, gli americani non finanzierebbero mai qualcosa che possa arrivare ad essere controproducente per la loro immagine. Ho avuto comunque molto supporto dall’Italia.”

Secondo lei c’è del potenziale nel panorama cinematografico italiano attuale?
“Io penso che il cinema italiano sia molto dinamico in questo momento, c’è una scena molto rigorosa di autori di qualità e di voci indipendenti. C’è Gianfranco Rosi, documentarista, giramondo anche lui, che va alla ricerca di storie occulte. C’è Michelangelo Frammartino con il film Le quattro volte, un autore concettuale, molto sofisticato. C’è Pietro Marcello, forse il più autoriale di tutti, che fa delle ricerche sul territorio con una voce molto singolare, unica. Poi ce ne sono altri come Leonardo di Costanzo, Salvatore Mereo. Penso che in questo momento c’è molta vivacità in Italia.”

Un modello del passato da cui trai ispirazione?
“È difficile per me rispondere a questa domanda perché a priori non mi ispiro a nessuno, né dal punto di vista tecnico né formale, ideologico o concettuale. Però molti registi sono in me, quindi a posteriori poi riesco ad intravedere quelle influenze. Ci sono i grandi registi del cinema marginale brasiliano degli anni ’60, i nomi non sono noti ai più, che lavoravano in condizioni politiche difficilissime, facendo lavori provocatori e anche molto personali.
Ci sono figure del neorealismo italiano, Rossellini fra tutti. Ci sono i giapponesi degli anni ’60,’70. Sicuramente tendo verso un cinema di rottura. Per esempio Rossellini è nel mio cuore non tanto per le opere realizzate, quanto per la storia che c’è dietro di lui. Il solo fatto che fece Roma città aperta quasi in condizioni di segretezza, durante la guerra e rischiando la propria pelle. A quei tempi il suo lavoro era un linguaggio completamente rivoluzionario, tra l’altro con un’attrice che secondo i canoni di bellezza del tempo non era bella, come Anna Magnani. Quindi lui creò una rottura, il cinema di rottura così come l’arte di rottura mi attrae, mi affascina.”

Adesso invece è più difficile creare una rottura, una rivoluzione di questa portata. Tempi in cui l’omologazione sta distruggendo la creatività.
“L’omologazione più pericolosa è quella di storie, piuttosto che di forma. Per raccontare di approcci ce ne sono tanti, però vedo delle storie che si ripetono. C’è chi guarda dentro racconti prefabbricati, che parlano di famiglie, rapporti tra genitori e figli con redenzioni finali. Penso che c’è tanta gente che non ha assolutamente niente da dire. Il problema è quello, non aver niente da dire, piuttosto che non saper raccontare storie nuove. Io personalmente me ne accorgo subito quando qualcuno non è mai uscito dal seminato o non ha visto il mondo, basta vedere un film per accorgersene, come i film in cui ci si perde per ritrovare se stessi, queste cose sono celebrali, non emotive. Questa gente che non ha vissuto, non ha niente da dire.
Per fare cinema bisogna mettersi un po’ più in gioco, sennò può diventare troppo borghese. Oggi c’è un’agghiacciante sproporzione tra cinema commerciale e quello autoriale, quest’ultimo sopravvive ormai solo nei festival o in qualche sala specializzata. Quindi il gap è grande e la tragedia è che c’è un modo borghese di vedere il cinema, tale per cui quando il cinema autoriale si presenta, spesso si attacca l’autore, lo si accusa di sensazionalismo, di provocazione, quando invece la provocazione è normale. E il problema è che quando il 99,9% è cinema di intrattenimento allora, quello è sintomatico della condizione socio-culturale di un paese, è agghiacciante.”


Nel suo film c’è un po’ di neorealismo e un po’ di Antonioni. Le piace questo regista?
“Certo che mi piace, non lo cito tra le ispirazioni, ma è nel mio bagaglio culturale. Non è un’ispirazione diretta, o forse lo è chissà, non me ne accorgo neanche. Ma fa parte di me, come tanti altri. Di cinema ne ho visto tanto, di quello nuovo non ne vedo molto, per questo continuo a guardare a ritroso.”

Un’ultima domanda. Cosa consigli ai giovani che vogliono intraprendere una carriera nel cinema?
“Posso solo dire quello che dicevo a degli studenti: possibilmente all’inizio non lavorate nel cinema, fate un altro lavoro. Separate la fonte di introiti e l’outlet creativo, perché se dall’inizio c’è una commistione delle due poi si finisce per preoccuparsene, l’uno influenza l’altro. Quindi vedere il cinema come fonte di guadagno crea un terreno non fertile per far sì che cresca una visione indipendente, autoriale. Per chi cerca il cinema d’autore forse è meglio separare le due cose, è necessario vivere sulla propria pelle la frustrazione del doversi dividere. Poi alla fine le cose si aggiustano, bisogna aver fiducia. Le esperienze poi convergono. Io non ho mai fatto assistente alla regia o montaggio, mi sono sempre rifiutato, ho fatto altri lavori, lasciando il cinema unicamente come passione. Oggi potrei guadagnarci, potrei vivere di cinema ma comunque non lo farò. Non sono pronto per far sì che il cinema diventi la mia unica fonte di guadagno. Produrre un film con l’ansia di dover guadagnare mi bloccherebbe, mi tarperebbe le ali. Quindi ad un giovane consiglierei qualcosa di poco glamour, per il bene della creatività. Secondo me quella è la salvezza di un ragazzo o ragazza che voglia essere un vero autore. Fare cinema senza pensare al guadagno, il cinema è una cosa separata, è un’espressione artistica. Penso che così si possa lavorare con più serenità. Questa è la mia esperienza personale, e quella è la scelta migliore che possa aver mai fatto.”



Dafne Berdini